4 dicembre 2011

“Almanya – La mia famiglia va in Germania”


Potrebbe essere la storia di una qualsiasi famiglia di emigrati. Intimista senza troppi strappi emotivi, racconta tre generazioni, tra passato e presente, con sarcasmo e schiettezza.
“Almanya - La mia famiglia va in Germania” al cinema dal 7 dicembre, ripartisce i ricordi in quadri, tra rewind e sentimenti coniugati al presente. Il protagonista è apparentemente voce narrante, emigrato di origine turca che raggiunge l’Europa per costruire un futuro per sé e per la moglie ed i figli.
E così per una giovane moglie turca, le difficoltà d’integrazione saranno le parole da imparare in tedesco per portare a tavola la cena ai figli. Mentre per un bambino del XXI secolo, nell’inevitabile processo di crescita umana, la difficoltà di raccontarsi passa da una normale lezione di geografia. Tedesco di nascita, non può aggiungere la propria bandierina nel luogo di origine della sua famiglia, perché assente dai confini della cartina.
Inizia così il vero parallelismo tra il piccolo nipote ed il pater familias. Da un lato le domande di chi essendo tedesco non sa di essere anche turco. Dall’altro il dilemma, vissuto con estrema ironia, di un uomo ormai in pensione che raggiunge i requisiti per poter avere il proprio passaporto tedesco. Hüseyin vive un profondo strappo che lo porta verso l'esigenza di ripartire, tornando alle origini ma con il supporto dei suoi affetti.
Attraverso un viaggio in Turchia verso una casa acquistata per “la famiglia”, tre generazioni e "mezzo" si riavvicinano, si comprendono e si sostengono.
Una nipote trova il coraggio di rivelare la propria gravidanza alla madre, solo dopo averne parlato con il nonno, il pater familias che con istinto e comprensione, arriva oltre i pregiudizi, giocando d’anticipo a confessioni postume. E poi due fratelli, figli di Hüseyin trovano il modo di ricucire strappi che sembravano essere causa di un allontanamento definitivo.
Tutto questo è volutamente  e armonicamente strumentale alle risposte:”Cosa significa essere stranieri?” e quindi “Perché siamo qui?”. Tutte domande che le sorelle Samdereli, sceneggiatrici del film campione d’incassi in patria con più di 11 milioni di euro, hanno deciso di porsi.
<<Oggi in Germania è in corso un intenso dibattito su come risolvere la questione dell’integrazione.  – spiegano le autrici - Si svolgono discussioni infuocate sui lampanti deficit culturali dei Gastarbeiters, lavoratori ospiti, sui loro comportamenti antisociali che sfogano nella violenza. “Almanya - La mia famiglia va in Germania  ci ricorda che questi lavoratori stranieri erano invitati dal governo tedesco e che hanno dato un enorme contributo alla stabilità economica del paese. Hanno diritto di restare e questo è quanto dice il nostro film: siamo qui e per noi è giusto così>>.
E quindi con grande ironia il quadro in bianco e nero che racconta l’arrivo in Germania di Hüseyin Yilmaz ricorda il cerimoniale previsto per il millesimo turco lavoratore, appena sopraggiunto.
Ma l’epilogo ad un discorso mancato negli anni Sessanta è il passaggio del testimone all’ultima generazione della famiglia. Hüseyin muore in viaggio nella sua terra d’origine, scoprendo i controsensi riservati ad uno straniero che, con un nuovo passaporto tedesco non può essere sepolto nel luogo in cui è nato.
Sarà quindi, il piccolo nipote, riappacificato con la consapevolezza delle proprie origini, a trovare le parole da esporre davanti al Cancelliere tedesco durante la celebrazione di ringraziamento ai Gastarbeiters.
Un film ben costruito, Almanya - La mia famiglia va in Germania”, che ha saputo andare oltre la tradizione di film a tematica turca essenzialmente drammatica, come riferiscono le stesse sorelle Samdereli. Uno sforzo di scrittura a più stesure, per una storia che con estrema franchezza sa testimoniare contraddizioni e pregi dell’essere etichettato, ancora oggi, come emigrato.

5 maggio 2011

“Tatanka”: il gancio alle mafie



Procede in crescendo, quasi da un provincialismo che dai bassi fondi campani sembra richiamare le sensazioni nate dal già noto “Gomorra” di Matteo Garrone. La matrice è sempre la pungente penna di Roberto Saviano.
“Tatanka” di Giuseppe Gagliardi nelle sale dal 6 maggio, ha in sé il crudo senso di un riscatto. Il desiderio di un giovane immolato ad una sorte che lo vede asservito alla criminalità organizzata casertana, ancora minorenne. Michele, degnamente interpretato dal pugile Clemente Russo, cresciuto nella palestra Excelsior persegue invece un’idea, la volontà di arrivare alle Olimpiadi, maturata quasi per errore, grazie al maestro di boxe Sabatino, impersonato da Giorgio Colangeli.
Un ritratto al microscopio di sentimenti, paure e scelte di due giovani, Michele appunto, e Rosario interpretato da Carmine Recano. Due vite che sembrano proseguire quasi all’unisono. Un’amicizia che vive di patti silenti, oltre la legalità e il rispetto delle regole.
La macchina da presa del film prodotto da Margherita Film, Minerva Film con la collaborazione di Rai Cinema, indugia sui particolari, sceglie di comporre quadri neorealisti accompagnati dal dialetto casertano, sottotitolato. Un linguaggio che attraversa le nazionalità che arriva a parlare lo slang dei ganci ed il sapore del riscatto. Dall’adolescenza campana, passando per i ring clandestini di Berlino, l’iniziazione di Michele al professionismo della boxe deve conoscere anche otto anni di carcere al Santa Maria Capua Vetere.
Convince la direzione di Gagliardi, che rende credibile ed omogenea la trama ed i suoi protagonisti, senza incorrere in stereotipi già noti al pubblico del grande schermo. Il rischio di una storia già sceneggiata, con una filmografia impegnativa che ha fatto della boxe la metafora vera e propria della redenzione, non intacca le scelte narrative di “Tatanka”. 

 
Il film vuole raggiungere “il grande pubblico”, spiega il regista stesso, ma vuole comunque mantenere il profondo “realismo” dei luoghi e dei protagonisti.I volti e le facce che hanno ispirato anche le colonne sonore curate da Peppe Voltarelli, che prosegue la sua collaborazione con Gagliardi dopo Doichlandia. Da qui la scelta di alcune scene in particolare, come il matrimonio del boss Salvatore animato dalla voce dal vivo del cantante neomelodico di turno. “Mi sono accorto che anche durante le pause gli attori (tra cui anche Carmine Recano) intonavano proprio questo genere” aggiunge Gagliardi. Ma la traccia melomane con la "Maria nazionale" come l'ha definita il regista durante la presentazione milanese,  riesce a connaturare la profondità emozionale della trama.
Brutale sin dalle prima scena rotta dal fragore di alcuni spari, il film progressivamente aggiunge tasselli al verismo espressivo, voluto e motivato dal regista stesso. Un crescendo emozionale e crudo che trascina l’occhio del pubblico alla consapevolezza di una realtà spesso dimenticata.
È così che il libro da cui è tratta la storia, “La bellezza e l’inferno” di Saviano, si permea della vita di un boxeur come Clemente Russo, della passione sfuggita alla malavita ed ai ricatti della miseria. Nasce così il desiderio di raccontare realtà scomode, come quella voluta dagli sceneggiatori Braucci, Gagliardi, Gaudioso, Sansone e Sardo. Si tratta della vicenda realmente accaduta nel 1985 a Palermo, al giovane Salvatore Marino, deceduto a causa di un cruento interrogatorio della Polizia.
Immagini scomode che hanno anche procurato a Clemente Russo la sospensione per sei mesi dalla Polizia. Fotogrammi narrativi difesi dal regista perché specchio di una verità che spesso rimane oscura a molti.
Luisa Bellissimo

28 aprile 2011

FACCIO UN SALTO ALL’AVANA


 
Una commedia leggera che racconta le vicissitudini di due fratello orfani, Vittorio e Fedele. Sin da bambini profondamente diversi i protagonisti sono impersonati rispettivamente da Francesco Pannofino e Enrico Brignano.
Una storia semplice che, senza particolari giochi di equivoci, si priva consapevolmente di scene di nudo e di volgarità, senza però lasciare spazio a particolari ilarità. Una commedia leggera che racconta la vita irreprensibile di Fedele, fratello devoto che vola all’Avana per riportarlo a Roma, dopo aver abbandonato la moglie e due figlie gemelle, Delfina e Ondina, fingendosi morto.
Mattatore incrostato l’attore romano Enrico Brignano, che nonostante la sua celebre ilarità,  nel contesto perde un po’ della sua fervida verve. Quasi decontestualizzato, sembra subire l’inserimento nel cast sacrificando una comicità che non ha più il suo charme di provincialismo intelligente.
Più sagace Pannofino sembra sentirsi a suo agio nel personaggio, senza comunque dare particolare slancio a Brignano, non diventandone mai spalla comica.
Più interessanti a volte, i fotogrammi in cui le protagoniste sono le due mogli dei fratelli, Laura e Annaclara Siniscalco rispettivamente interpretate da Paola Minaccioni e Virginia Raffaele.
Uno spaccato di una famiglia borghese romana fatto di paradossi non adeguatamente comici. È proprio la tipizzazione romanaccia dei personaggi che spesso riesce a dare slancio alle battute. Particolarmente gradevole la conversazione telefonica tra la Minaccioni e una donna cubana, durante l’inseguimento dei due fratelli in un mercato tipico. È proprio Brignano ad abbandonare i nervosismi da ovulazione impellente della moglie all’orecchio sconosciuto di una donna del posto.
Altrettanto gradevole il cast femminile tra cui la protagonista Aurora Cossio, nei panni di Alma. Alquanto credibile nella vicenda narrata, di bella presenza, pur allontanandosi dal cliche di molte commedie devote a figure femminili necessariamente nude.
Luisa Bellissimo

"Faccio un salto all'Avana". Il regista Baldi: “Al bando chiches da cinepanettone”

Da sinistra: Aurora Cossio, Francesco Pannofino e Enrico Brignano 

(http://www.medusa.it/film/53/faccio-un-salto-allavana.shtml)
                                                       


“Macchina  a spalla, senza cliches da cinepanettone”. In poche parole il regista Dario Baldi presenta il film in uscita nelle sale dal 22 aprile scorso “Faccio un salto all’Avana”.
Dopo la prima milanese, il figlio d’arte Baldi senza troppi fanatismi ed aspettative descrive la sua nuova commedia girata a Cuba. Senza donne nude ammiccanti, al di là della visione da cartolina turistica, con un cast per lo più femminile, il mattatore incontrastato della scena è Enrico Brignano assente alla presentazione perché impegnato nel tour che lo sta vedendo sulla scena, dopo il successo dello scorso anno, con “Sono romano ma non è colpa mia”.
Con simpatia intelligente, guest star della conferenza è il degno compagno del celebre attore romano sul set, Francesco Pannofino che interpreta Vittorio, fratello di Fedele. E proprio in questa occasione, si fa promotore delle uscite primaverili di commedie che non vogliono essere associate al mercato di cinepanettone e cinecocomero.
Sulla medesima traccia il regista Baldi:”Spero sia una nuova abitudine del pubblico andare al cinema in primavera per vedere storie che non riempiano solo le domeniche natalizie”. Bandito il nudo e le volgarità, il nuovo target sembra già etichettato.
Improvvisazione e libertà di creare: sono le chiavi dell’altra traccia, più volte ribadita, anche dalle altre protagoniste presenti alla conferenza stampa, ossia Aurora Cossio, Grazia Schiavo e Isabelle Adriani.
È proprio la Cossio ad intavolare un elogio al regista ed alla sua scelta di prediligere la spontaneità. Con questa impostazione, ispirandosi ad una sua amica cubana l’attrice di origine colombiana, ha interpretato Alma.
Ad aprire uno spaccato sull’umanità degli attori cubani è la Schiavo, che sul set è la svampita Barbara, eterna innamorata di Vittorio. L’attrice nel vestire i panni del personaggio, si è detta divertita e consapevole di avere accentuato una parte di sé, alquanto distratta e maldestra.
Per la dark lady, avvocato e investigatore privato interpretata dalla Adriani, l’ispirazione è giunta da un celebre cartone animato, a suo dire. Le tutine agguerrite di “Occhi di gatto” sono state la fonte a cui ha attinto l’attrice per la lavorazione. Ma l’incubo più volte ribadito dalla stessa “dopo la prova costume fatta a Roma”, è stata proprio l’essere inguainata in una tutina da catwoman ai 45 gradi all’ombra di Cuba.
Nota di merito degli addetti ai lavori, tra cui il regista Baldi è giunta esplicitamente per i tecnici originari di Cuba, presso cui sin dagli anni Settanta esiste la Scuola internazionale di cinema. “Sembrava di essere a Cinecittà” ha poi aggiunto Pannofino.
Luisa Bellissimo

17 aprile 2011

"Habemus papam". Il confine del senso d'inadeguatezza

Quando il senso umano non si nasconde sotto la veste talare papale, forse ci si accorge dei paradossi. Habemus papam per la regia di Nanni Moretti ricorda al mondo il senso di smarrimento. Quella profonda sensazione di perdita, anche di se stessi di fronte ad una responsabilità più grande.
La concretezza di una scelta, quasi obbligata o così percepita, genera un'attacco di panico, un urlo che lascia sorridere la platea, forse perchè surreale, ma solo in apparenza. 
La Chiesa che dialoga con il pubblico di Moretti, si ricorda ciò che manca al mondo. Per cercare se stessa si immerge nei viaggi metropolitani fatti di paure di abbandono, di discorsi a voce alta. L'umanità impermea sin dalle prime scene una storia già vissuta. Solo sei anni fa dal sagrato di San Pietro una bara di fattura semplice, una Bibbia sfogliata dal vento, aveva lasciato un segno.
Dal Conclave arriva la decisione sancita diadevota fumata bianca. Ma ciò che sembra stabilito da una gerarchia, da una procedura, da regole precise, viene sovvertito dal normale senso di inadeguatezza che prova, almeno una sola volta nella vita, ogni essere umano.
L'ironia pungente di Moretti lascia il passo alla sensazione forte di credere che senza una guida, l'umanità prova  un profondo senso di smarrimento. Il popolo cattolico raccolto nella fatidica piazza di San Pietro attende, spera e non si aspetta che dal balcone che ha dato benedizioni a molte generazioni, possa giungere una dura consapevolezza per alcuni, una profonda liberazione per uno solo.