19 aprile 2012

Slip away. Il teatro-danza della Lucenti contro la stupidità


L’inconscio di quattro donne raggiunge la scena. Stereotipi, abitudini e ossessioni assumono maschere e forme diverse. Una terapia collettiva che guida spettatori ed attori in un viaggio quasi catartico, che consente di riconoscersi ma anche confondersi.
La prima rappresentazione di Slip Away di Michela Lucenti ha portato sul palcoscenico del teatro Cipresseto di Reggio Calabria la cruda essenza delle donne. Con le protagoniste Teresa Timpano, Sara Ippolito, Francesca Lombardo, Livia Porzio un’altra testimonianza di teatro-danza.

 
Foto di Max Malatesta

A corpo a corpo tra vita reale e convenzioni, tra subconscio e le profonde volontà del genere femminile, la danza e i brevi monologhi catturano le sfaccettature di un’intera esistenza.
Una scenografia scarna, con un nero totalizzante, lascia spazio agli stilemi razionalizzati dalla regista, già allieva di Pina Bausch. Una magistrale scelta musicale concede i corpi delle attrici in pasto alla cerebrale semplicità di Wolfang Amadeus Mozart: quasi un contrasto interiorizzato tra l’apparente linearità armonica del compositore e le angosce più remote del genere femminile.
Un gioco perverso che assume la forma di maschere, ora di pecora ora di montone, per riportare in scena il volere della regista: “l’inizio di un lavoro sulla stupidità, provando a creare due diversi spettacoli, uno maschile ed uno femminile”. Slip away  è un monito contro “la stupidità del non avere coraggio”, come spiega la stessa regista, durante una clip multimediale prima dello spettacolo. Di fatto lo spettacolo è un richiamo ostinato a non evitare la propria vera essenza.
E così una carrellata innumerevole di corpi, di donne borghesi avvilite, top manager che immaginano matrimoni a San Siro con Silvio Berlusconi e Sting: ospiti al ricevimento uomini africani. E mentre in sottofondo proseguono risate da candid camera, l’iperattiva donna fasciata in tailleur rigorosamente nero crea la propria realtà, compiacendo interlocutori fantasmi. Memorabile il monologo di una Dio-donna, in impermeabile e ombrello rotto, che richiama il libero arbitrio, ironizzando sulle scelte e sui rapporti umani.
Ma altri veri protagonisti sulla scena sono gli oggetti della vita quotidiana. Le immagini richiamano le schiavitù domestiche, la nevrosi dell’apparire, fino ad arrivare a corto circuito che arriva a reiterare parossisticamente gesti anche troppo consueti. La donna quindi, più o meno consciamente, si scontra con i riti dell’esistenza. L’irrisione di un metodo di vita passa attraverso il filo di un ferro da stiro che sembra quasi dare la diretta energia ad uno stilema di consuetudine.
Una viaggio estenuante per ogni donna che può riconoscersi in mille gesti, magistralmente pensati dalla Lucenti. Un percorso che arriva a un’ode alla “madre di ogni filo d’erba”. Un coro unico che testimonia un dolore, la perdita “di sangue dalla memoria”.
Quasi una regressione all’infanzia, una ricerca del sé che arriva alla risata genuina di un bambino che accompagna lo spettatore verso la chiusura della scena, ma oltre l’intenzione di riflettere.
Luisa Bellissimo


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